Ho tre lavori discografici pubblicati a mio nome con etichette più o meno indipendenti, non sono popolare e, come per molti altri musicisti di jazz, sono più conosciuta tra gli addetti ai lavori. Sono bilingue dalla nascita, grazie ad una madre spagnola ma sono nata a Napoli dove ho vissuto per venticinque anni.
Questo mi ha facilitata nella vita e nella carriera: l’intuito e l’istinto sono il frutto del mio essere partenopea, il mio “corso di sopravvivenza” che mi ha allenato alla fantasia, alla velocità di reazione, alla capacità di problem solving. Il fatto che parli piuttosto bene l’inglese, la lingua madre della musica che insegno, è solo un caso fortunato dovuto alla mia irrequietudine giovanile che spinse i miei genitori a tenermi impegnata in vari college all’estero. Ho sempre amato la musica e la mia adolescenza è coincisa con un buon momento per la discografia degli anni settanta e ottanta: in casa c’era sempre musica, da Fausto Papetti a Dionne Warwick, da Paco De Lucia a mio padre che suonava il pianoforte il sabato pomeriggio. Avendo un grande orecchio e qualche anno di studi classici, lui suonava appresso ai vinili che aveva comprato nella passeggiata con mia madre: da Liza Minnelli a Chopin, da “Nero a metà” di Pino Daniele a “Thriller” di Michael Jackson. Frank Sinatra e George Benson erano la cosa più vicina alla mia idea di jazz fino a che non ascoltai Michel Petrucciani e Carmen Mc Rae. Ne rimasi letteralmente folgorata. Dalla prima nota, mi sembrava fosse tutto chiaro, ogni nota, ogni variazione, ogni cambio di accordi. Non sapevo nulla di musica ma era meravigliosamente eccitante e decisi che dovevo studiare quel linguaggio invece di intuirlo soltanto.
Con Kate Baker e Jay Clayton
Fino a che si è parlato di musica ho avuto docenti magnifici con cui ho avuto anche l’onore di suonare. Molti erano gli stessi dei dischi che avevo in casa, quelli che il jazz lo hanno fatto per davvero. Dal momento in cui è stato necessario studiare la voce, ovvero la tecnica strumentale, sono però cominciati i problemi. Ho incontrato e provato vari maestri che non erano mai d’accordo o con la mia scelta musicale, o con l’idea delle possibilità del mio strumento. C’è chi mi ha voluto contralto e chi mi ha creduto un soprano, chi mi ha allenato solo su arpeggi maggiori e chi invece mi ha insegnato pattern improvvisativi usando improbabili fonemi da utilizzare nello scat. Altri ancora mi imponevano il solfeggio e lo studio del circolo delle quinte come presupposto di uno studio serio. Del ritmo, del linguaggio con cui mi esprimevo, dell’utilizzo della tecnica microfonica, dell’orecchio e del corpo, nessuno ha mai proferito parola se non come “presenza scenica “o di “gestione del palco”. È solo la mia passione e la curiosità a farmi continuare a cercare risposte. A metà degli anni novanta si suonava moltissimo e nelle città c’erano molti locali che offrivano musica dal vivo e fu proprio ad una mia gig, all’Otto Jazz club di Napoli, che mi fu chiesto per la prima volta di insegnare. Fu una grande emozione. I primi studenti che ebbi mi dicevano che facevo capire le cose e che le rendevo chiare anche per gli esempi che facevo. Ho cominciato così ad avere sempre più allievi tanto che il mio studio privato, cioè nella stanza accanto alla cucina di casa, diventò presto troppo piccolo e affollato. In molti altri casi, invece, ho fallito miseramente per vari motivi, tra cui la grande differenza che c’è tra il saper fare e il saper insegnare. In seguito sono arrivati più concerti, anche importanti, le registrazioni dei dischi, i lavori in teatro. Il numero di allievi intanto aumentava e insegnavo in varie scuole e appena seppi del primo bando di concorso per l’insegnamento in Conservatorio, decisi di partecipare. Le porte dei luoghi sacri della formazione musicale si erano aperte anche al jazz. La commissione mi ritenne idonea “all’insegnamento dell’approfondimento della tecnica strumentale in canto jazz”, con moltissimi punti artistici. Zero punti in formazione. Zero punti di servizio. Ero seconda in graduatoria ma rifiutai l’incarico di supplenza perché avrei dovuto affrontare un viaggio troppo lungo per pochissime ore di lezione. Gli studenti erano davvero pochi, in quel momento. La cosa che non mi spiegai fu che i titoli formativi di “peso”, quelli con un punteggio alto, erano riferiti agli stessi rilasciati proprio dai Conservatori, dove fino a quel momento, ci si era diplomati in Canto Classico. Io non ci vedevo nessun senso. Ad ogni modo, un curriculum ricco di titoli artistici, come testimonianza di un’attività musicale accertata da elenchi infiniti di concerti, dischi e pubblicazioni varie, avrebbe comunque potuto sopperire alla mancanza di formazione accertata da titoli canonici.
Questo è stato il mio caso. Peccato, però, che per allungare l’elenco dei concerti, per molti non è stato possibile omettere la partecipazione alla festa della birra o alla jam session del pub sotto casa. Quelle due righe in più potevano fare la differenza per non cedere il posto ad altri. Questo non è stato il mio caso. L’unico attestato italiano ufficiale è il Master in Vocologia Artistica, arrivato molti anni dopo. Questo titolo altisonante, che in pochi conoscono e non credo sia traducibile in altre lingue, mi ha dato l’opportunità di incontrare eccellenze della medicina e della ricerca della Voce Artistica. Una grande esperienza dovuta all’incontro con professionisti, generosi e appassionati, di tutto il mondo, che mi hanno ispirata e motivata a continuare a cercare. Sono una docente di canto moderno ma non so ancora se sono diventata brava perché ho avuto tanti allievi o se ho avuto tanti allievi perché sono stata brava.Le mie referenze sono basate sul lavoro svolto in questi anni, come unica testimonianza del fatto che esiste questo tipo di docenza. Molti tra i miei allievi hanno raggiunto grandi traguardi per bravura, capacità, carattere, dedizione. Molti di loro vivono di musica, ma non sempre in Italia. Molti altri sono cantanti felici e maestri incredibilmente efficaci, altri ancora hanno smesso di pensare a voler diventare famosi e hanno proprio smesso di cantare. Oggi esiste un iter riconosciuto per poter attestare una formazione in canto classico oppure in canto jazz o extra-colto, ma non esiste un Albo degli insegnanti di canto. Le certificazioni di cui si sente parlare sono, quindi, assolutamente arbitrarie in quanto questa figura non è riconosciuta dal MIUR.
Fare musica in questo paese è in realtà un hobby e insegnare è il grande business.
A mio avviso, stiamo ancora vivendo di rendita sul nostro passato glorioso e i risultati fallimentari purtroppo cominciano a vedersi.
Insegnare la tecnica strumentale significa poter fornire i mezzi per rendere facile ciò che è difficile.
Serve a sonorizzare l’immaginazione dei ragazzi di questo tempo, di questi anni.
La tecnica è al servizio della musica.